Libro 1

Libro 1 : I monaci del chiostro

Capitolo 3


I monaci del chiostro«»

Coloro che furono i padri del nostro Ordine seguivano il lume dell’oriente, ossia di quegli antichi monaci che, ardenti d’amore per il ricordo del Sangue del Signore versato di recente, popolarono i deserti per professarvi la vita solitaria e la povertà di spirito. Bisogna quindi che i monaci del chiostro, calcando le loro orme, dimorino come essi in eremi sufficientemente remoti dalle abitazioni degli uomini e in celle al riparo dai rumori sia del mondo, sia della casa stessa; ma soprattutto bisogna che si rendano essi stessi estranei anche alle preoccupazioni mondane.

Chi dimora stabilmente in cella e da essa è formato, mira a rendere tutta la sua vita un’unica e incessante preghiera. Ma non può entrare in questa quiete, se non dopo essersi cimentato nello sforzo di una dura lotta, sia mediante le austerità nelle quali persiste per la familiarità con la Croce, sia mediante quelle visite con le quali il Signore lo avrà provato come oro nel crogiolo. Così, purificato dalla pazienza, consolato e nutrito dall’assidua meditazione delle Scritture, e introdotto dalla grazia dello Spirito nelle profondità del suo cuore, diverrà capace non solo di servire Dio, ma di aderire a lui.

È anche necessario dedicarsi a qualche lavoro manuale, non tanto per la piacevole distensione che esso apporta momentaneamente all’animo, ma piuttosto perché, col sottomettere il corpo alla comune legge degli uomini, esso conservi ed alimenti il gusto degli esercizi spirituali. Perciò al monaco sono concessi in cella gli utensili necessari, affinché non sia costretto ad uscirne. Infatti ciò è lecito solo quando ci si raduna nel chiostro o in chiesa, o per le occasioni generalmente stabilite. Tuttavia, quanto più austera è la vocazione che abbiamo abbracciato, tanto più siamo obbligati alla povertà in tutte le cose che sono di nostro uso. È necessario infatti che seguiamo l’esempio di Cristo povero se vogliamo aver parte alle sue ricchezze.

Riuniti dall’amore del Signore, dalla preghiera e dal desiderio ardente della solitudine, i padri si mostrino veri discepoli di Cristo non tanto di nome quanto di fatto; coltivino con ardore l’amore reciproco, avendo i medesimi sentimenti, sopportandosi a vicenda, perdonandosi scambievolmente se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri, affinché con un solo animo e una voce sola rendano gloria a Dio.

I padri inoltre abbiano sempre dinanzi alla mente l’intimo legame che in Cristo li unisce ai fratelli. Riconoscano di dipendere da essi per poter offrire al Signore una preghiera pura nella quiete e nella solitudine della cella. Ricordino che il sacerdozio, del quale sono stati insigniti, è un servizio reso alla Chiesa, specialmente verso i membri che sono loro più vicini, ossia verso i fratelli della propria casa. Gareggiando nello stimarsi a vicenda, padri e fratelli vivano nella carità che è il vincolo di perfezione, il fondamento e il culmine di ogni vita consacrata a Dio.

È dovere del priore mostrarsi a tutti i suoi figli, monaci del chiostro e fratelli, come segno dell’amore del Padre celeste, e unirli in Cristo in modo tale che formino un’unica famiglia e ognuna delle nostre case, secondo l’espressione di Guigo, sia veramente una chiesa certosina.

Quest’ultima ha la sua origine e il suo cardine nella celebrazione del sacrificio eucaristico, che è il segno efficace dell’unità. Esso è pure il centro e l’apice della nostra vita e il cibo del nostro esodo spirituale, grazie al quale, nella solitudine, per il Cristo ritorniamo al Padre. Anche in tutta la liturgia Cristo prega per noi come nostro Sacerdote, e in noi come nostro Capo, tanto che possiamo riconoscere le nostre voci in lui e la sua in noi.

Nella veglia notturna il nostro Ufficio, secondo l’antico uso, si protrae abbastanza lungamente; tuttavia non supera i limiti della discrezione. Così la pietà interiore viene alimentata dalla salmodia, in modo tale che possiamo, d’altra parte, dedicarci alla preghiera segreta del cuore, senza che ne nascano tedio o stanchezza.

Secondo una nostra antica consuetudine, ogni monaco del chiostro, per mirabile degnazione della divina misericordia, è destinato al sacro ministero dell’altare. Si manifesta così in lui quell’armonia che, secondo l’affermazione di Paolo VI, intercorre tra la consacrazione sacerdotale e quella monastica; infatti ad imitazione di Cristo, egli diventa contemporaneamente sacerdote e vittima di soave odore per Dio, e per l’unione al sacrificio del Signore partecipa alle imperscrutabili ricchezze del suo Cuore.

Essendo il nostro Ordine totalmente dedito alla contemplazione, è necessario che conserviamo in modo assolutamente fedele la nostra separazione dal mondo. Ci asteniamo perciò da qualsiasi ministero pastorale, pur nell’urgente necessità di apostolato attivo, per adempiere nel Corpo mistico di Cristo la nostra funzione specifica.

Eserciti Marta il suo servizio certamente degno di lode, ma non privo di affanni e agitazione; tuttavia sopporti la sorella che, calcando le orme di Cristo, quieta e disponibile, lo contempla nella sua divinità; che scruta il proprio intimo, aprendo il suo cuore alla preghiera e ascolta quel che interiormente le dice il Signore, pervenendo così nella debole misura che le è possibile, come in uno specchio e in maniera confusa, a gustare e vedere quanto egli è buono, e pregando sia per Marta che per tutti coloro che, come lei, sono impegnati nel lavoro. Essa non ha solamente il più giusto giudice, ma anche il più fedele avvocato, cioè lo stesso Signore, che si degna non solo di difenderne la vocazione, ma anche di farne l’elogio, affermando: Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta; con tali parole la dispensò dall’immischiarsi negli affanni e nelle inquietudini, per quanto caritatevoli, di Marta.

Capitolo 4


La custodia della cella e del silenzio«»

Il nostro impegno e la nostra vocazione consistono principalmente nel dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è infatti la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme, come un amico col suo amico. In essa frequentemente l’anima fedele viene unita al Verbo di Dio, la sposa è congiunta allo Sposo, le cose celesti si associano alle terrene, le divine alle umane. Tuttavia lungo è il cammino attraverso brulla e riarsa strada prima di arrivare alle fonti d’acqua e alla terra promessa.

Conviene perciò che l’abitatore della cella badi con diligente sollecitudine di non inventare o accettare occasioni di uscirne, eccettuate quelle che sono generalmente stabilite, ma piuttosto stimi la cella così necessaria alla sua salvezza e alla sua vita come l’acqua ai pesci e l’ovile alle pecore. Se, invece, avrà preso l’abitudine di uscire di cella con frequenza e per futili motivi, ben presto gli diverrà odiosa, secondo quel detto di sant’Agostino: Per gli amici di questo mondo niente è più affannoso che non affannarsi. Al contrario, quanto più a lungo dimorerà in cella, tanto più lo farà volentieri, purché tuttavia sappia occuparvisi con ordine e utilmente a leggere, scrivere, salmodiare, pregare, meditare, contemplare e lavorare. Abbia frattanto familiare quel tranquillo ascolto del cuore che lascia entrare Dio da tutte le porte e da tutte le vie. Così, con l’aiuto del Signore, eviterà i pericoli che non rare volte insidiano il solitario, cioè di seguire nella cella la via più comoda, e di essere annoverato tra i tiepidi.

Chi l’ha sperimentato, sa quale frutto porti il silenzio. Benché nei primi tempi tacere possa essere una fatica, gradualmente, se saremo stati fedeli, dallo stesso nostro silenzio nascerà in noi l’attrattiva verso un silenzio ancora maggiore. Per ottenerlo è stato stabilito che non possiamo parlare gli uni con gli altri senza il permesso del presidente.

Il primo atto di carità verso i nostri fratelli consiste nel rispettare la loro solitudine; e se abbiamo il permesso di parlare di qualche faccenda, la nostra conversazione sia, per quanto è possibile, breve.

Dio ci ha condotti nella solitudine per parlarci al cuore. Sia perciò il nostro cuore come un altare vivente dal quale salga perennemente al cospetto di Dio una preghiera pura; di essa tutte le nostre azioni devono essere come impregnate.

Capitolo 5


Le occupazioni della cella«»

Il monaco del chiostro, soggetto secondo lo spirito della propria vocazione alla legge divina del lavoro, fugge l’ozio che secondo gli antichi è nemico dell’anima. Perciò si applica umilmente e con gioia a tutte le occupazioni richieste dalle necessità della sua vita povera e solitaria; in modo tale tuttavia che ogni cosa sia ordinata al servizio della contemplazione di Dio alla quale è totalmente consacrato. Infatti, oltre ai diversi generi di lavori manuali, costituiscono la sua opera giornaliera tutti i doveri che il suo stato richiede, principalmente quanto riguarda il culto divino e lo studio delle scienze sacre.

In primo luogo, per non trascorrere inutilmente in cella il tempo della vita religiosa, con solerzia congiunta a discrezione, il monaco del chiostro deve applicarsi agli studi a lui adatti, non per smania di imparare o di pubblicare libri, ma perché la lettura, sapientemente regolata, dà una formazione più solida all’anima ed offre il fondamento alla contemplazione delle realtà celesti. Infatti, sbagliano coloro che credono di potersi facilmente innalzare ad un’intima unione con Dio se hanno trascurato in antecedenza lo studio della sua Parola o se l’hanno abbandonato in seguito. Perciò, più attenti alla sostanza del pensiero che alla spuma delle parole, dobbiamo scrutare i divini misteri con quel desiderio di conoscere che nasce dall’amore e l’amore accende.

Con il lavoro manuale il monaco si esercita nell’umiltà e riduce in schiavitù tutto il suo corpo per meglio conseguire la stabilità dello spirito. Perciò nei tempi stabiliti, è lecito dedicarsi a lavori manuali che siano veramente utili. Infatti non conviene perdere in occupazioni superflue o inutili il tempo prezioso che è concesso a ciascuno per glorificare Dio. Ma da questo tempo non è esclusa l’utilità della lettura e della preghiera; anzi si può ricorrere sempre, durante il lavoro, almeno a brevi orazioni giaculatorie. Talvolta può anche accadere che il peso del lavoro si debba porre come un’ancora all’agitarsi dei pensieri, così che il cuore può rimanere continuamente fisso in Dio, senza che la mente si stanchi.

Il lavoro è un servizio per cui ci uniamo a Cristo che non venne per essere servito ma per servire. Meritano lode tutti coloro che di propria iniziativa hanno cura della suppellettile, degli strumenti e degli altri oggetti che usano in cella, in modo da risparmiare, per quanto è possibile, lavoro ai fratelli. Peraltro, è dovere di tutti tenere la cella in ordine e pulita.

Il priore può sempre ordinare ad un padre qualche lavoro o servizio di comune utilità; questi lo accetta volentieri e con gioiosa carità, perché nel giorno della sua professione ha chiesto di essere ricevuto come il più umile servo di tutti. Quando però si affida qualche lavoro a un monaco del chiostro, esso sia sempre tale da garantire la libertà dello spirito mentre lo si compie, e da non far sorgere affannosa inquietudine per motivi di lucro o per scadenze fisse in cui terminare il lavoro. È infatti necessario che il solitario, attento non tanto a ciò che fa, quanto al fine per cui agisce possa custodire sempre vigile il cuore. Perché poi il monaco possa rimanere quieto e sano nella solitudine, sarà spesso opportuno che goda di una certa libertà nell’organizzare il proprio lavoro.

In via ordinaria i padri non siano chiamati a lavorare fuori delle proprie celle, specialmente nelle obbedienze dei fratelli. Quando però capita che dei padri siano incaricati di attendere insieme alla stessa occupazione, possono parlare tra di loro di ciò che è utile al loro lavoro, ma non con chi sopraggiunge.

Pertanto, la nostra attività scaturisca sempre come da una sorgente interiore, sull’esempio di Cristo, che opera sempre con il Padre, di modo che il Padre, dimorando in lui, compia egli stesso le opere. Così seguiremo Gesù nella sua umile e nascosta vita di Nazaret, sia pregando il Padre nel segreto, sia lavorando al suo cospetto in spirito di obbedienza.

Capitolo 6


L’osservanza della clausura«»

Fin dagli inizi fu intenzione del nostro Ordine di esprimere e custodire la nostra totale consacrazione a Dio mediante lo stretto rigore della clausura. Quanto grande dovrebbe essere la necessità perché si possa uscire dalla clausura, appare evidente dal fatto che il Reverendo Padre non esce mai dai confini del deserto di Certosa. Perciò, dovendo essere osservata in modo uguale per tutti una sola e medesima regola da coloro che l’hanno professata, noi che abbiamo abbracciato la vocazione certosina, per cui siamo chiamati certosini, non ammettiamo facilmente eccezioni; se poi qualche necessità ci obbligherà ad uscire, dobbiamo chiedere sempre il permesso al Reverendo Padre, eccetto che si tratti di un caso urgente e di altri previsti dagli Statuti.

Ma il rigore della clausura si cambierebbe in farisaica osservanza, se non fosse il segno di quella purezza di cuore cui soltanto è promesso di vedere Dio. Per conseguirla si richiede un grande spirito di mortificazione, soprattutto della naturale curiosità che l’uomo prova per le vicende umane. Non dobbiamo permettere alla nostra mente di vagare per il mondo alla ricerca di novità e di chiacchiere; nostro compito invece è di rimanere nascosti nel segreto del volto del Signore.

Dobbiamo evitare i libri profani e i periodici che possono turbare il nostro silenzio interiore. Sarebbe soprattutto contrario allo spirito del nostro Ordine introdurre nella clausura, in qualsiasi modo, giornali che trattano di politica. Anzi, i priori persuadano i monaci ad essere molto sobri nelle letture profane. Però questa esortazione richiede un animo maturo e padrone di sé, che sappia coerentemente abbracciare tutte le conseguenze della parte migliore che ha scelto, quella di sedere ai piedi del Signore ed ascoltarne la parola.

La familiarità con Dio tuttavia non restringe ma dilata il cuore, così che possa abbracciare in lui le aspirazioni e i problemi del mondo e le grandi cause della Chiesa, delle quali è conveniente che i monaci abbiano una certa conoscenza. Però la sincera sollecitudine per gli uomini deve essere vissuta non soddisfacendo alla curiosità, ma con un’intima unione con Cristo. Ascoltando nel proprio cuore lo Spirito, ciascuno veda quel che può ammettere nella sua mente, senza che ne sia turbato il colloquio con Dio.

Se poi, per caso, giungesse a noi qualche notizia di quanto avviene nel mondo, guardiamoci dal trasmetterla ad altri; ma piuttosto lasciamo i rumori del secolo là dove li abbiamo uditi. Spetta infatti al priore dare ai suoi monaci le informazioni che non è bene che essi ignorino, particolarmente sulla vita della Chiesa e sulle sue necessità.

Con le persone dell’Ordine o con altri che talvolta sono di passaggio nella nostra casa non cerchiamo di parlare se non per una vera necessità. Infatti a un fedele amante della solitudine e del silenzio, avido di quiete, non giova fare o ricevere visite senza motivo.

Poiché sta scritto: Onora tuo padre e tua madre, mitighiamo un poco il rigore della clausura per ricevere i genitori o gli altri nostri parenti ogni anno per due giorni separati o consecutivi. Però evitiamo altre visite di amici e conversazioni con secolari, tranne che l’amore di Cristo lo renda inevitabilmente necessario. Sappiamo infatti che Dio è degno che gli si offra questo sacrificio, e che esso gioverà agli uomini più che le nostre parole.

Anche la clausura esterna sarebbe inutile se mantenessimo un frequente contatto con persone di fuori mediante corrispondenza epistolare. Non mandiamo né riceviamo lettere senza che ne sia stato informato il priore.

Non impartiamo mai direzione spirituale per lettera. Né è lecito ad alcuno di noi predicare in pubblico; se infatti i secolari non traggono profitto dal nostro silenzio, tanto meno lo trarranno dalla nostra parola.

Nelle nostre case canonicamente erette si osservi una stretta clausura conforme alla tradizione dell’Ordine. In clausura le donne non possono essere ammesse. Quando parliamo con donne osserviamo quella modestia che conviene ad un monaco.

Ricordino i monaci che la castità da essi abbracciata per il regno dei cieli deve essere apprezzata come un insigne dono della grazia. Essa infatti rende libero in maniera speciale il loro cuore, così da poter più facilmente aderire al Signore con amore indiviso. In tal modo essi evocano quelle nozze misteriose operate da Dio e che si manifesteranno pienamente nel secolo futuro, per cui la Chiesa ha Cristo come unico Sposo. Bisogna dunque che, sforzandosi di osservare fedelmente la loro professione, credano nelle parole del Signore, e, confidando nell’aiuto divino, non presumano delle loro forze, ma pratichino la mortificazione e la custodia dei sensi. Confidino anche in Maria, che per la sua umiltà e la sua verginità ricevette la grazia di divenire Madre di Dio.

Quanta utilità e gioia divina arrechino la solitudine ed il silenzio dell’eremo a coloro che li amano, lo sanno solo quelli che ne hanno fatto l’esperienza.

Qui infatti gli uomini coraggiosi possono rientrare in se stessi quanto vogliono e dimorare nel loro cuore, coltivare intensamente i germi delle virtù e gustare con gioia i frutti del paradiso.

Qui si acquista quell’occhio il cui sereno sguardo ferisce d’amore lo Sposo e grazie alla cui purezza e luminosità si vede Dio.

Qui ci si applica assiduamente ad un ozio attivo e si riposa in un’azione quieta.

Qui, in cambio del faticoso combattimento, Dio dona ai suoi atleti la desiderata ricompensa, cioè la pace che il mondo ignora e la gioia nello Spirito Santo.

Capitolo 7


L’astinenza e il digiuno«»

Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Noi lo facciamo, sia accettando le tribolazioni e gli affanni di questa vita, sia abbracciando la povertà nella libertà dei figli di Dio e rinunciando alla nostra volontà. Secondo la tradizione monastica è inoltre nostro dovere seguire Cristo che digiuna nel deserto, trattando duramente il nostro corpo e riducendolo in schiavitù, affinché lo spirito risplenda del desiderio di Dio.

I monaci del chiostro fanno un’astinenza alla settimana, ordinariamente il venerdì. In tale giorno si accontentano di pane ed acqua. In certi giorni e in certi periodi dell’anno osservano il digiuno d’Ordine, cioè fanno un solo pasto al giorno.

Dobbiamo abbracciare la mortificazione della carne non solo per obbedire agli Statuti, ma principalmente perché, liberi dai voleri della carne, possiamo seguire più prontamente il Signore.

Se in un dato caso o con l’andar del tempo uno si accorgesse che qualcuna delle nostre osservanze superi le sue forze, e che il suo spirito ne sia piuttosto ritardato che animato a seguire Cristo, con cuore filiale fissi col priore una mitigazione adeguata alle sue esigenze, almeno per un certo tempo. Però, sempre memore di Cristo che lo chiama, veda che cosa sia in grado di fare e offra al Signore in altro modo quel che non può dare mediante l’osservanza comune, rinnegando sé stesso e portando ogni giorno la sua croce.

Occorre dunque abituare gradatamente i novizi alle astinenze e ai digiuni dell’Ordine, affinché tendano in modo prudente e sicuro al rigore dell’osservanza sotto la guida del maestro. Questi in particolare insegni loro a non mancare alla sobrietà al momento dei pasti, col pretesto dei digiuni che devono osservare. Così impareranno a castigare mediante lo spirito le opere della carne e a portare nel proprio corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nei loro corpi.

Secondo l’osservanza introdotta dai nostri primi padri e incessantemente custodita con singolare impegno, abbiamo escluso dal nostro genere di vita ogni uso della carne, sia sotto forma di cibo che di bevanda. Questa astinenza sia osservata come caratteristica dell’Ordine e segno dell’austerità eremitica nella quale, con la grazia di Dio, intendiamo perseverare.

Nessuno di noi all’insaputa e senza il consenso del priore pratichi altri esercizi di penitenza, oltre a quelli indicati nei presenti Statuti. Però, se a qualcuno di noi il priore volesse far prendere un supplemento di cibo, di sonno o di qualsiasi altra cosa, oppure gli volesse imporre qualche penosa austerità, non ci è lecito rifiutare, per non trovarci ad aver resistito col nostro rifiuto non a lui ma al Signore, di cui egli fa le veci presso di noi. Sebbene infatti molteplici e diverse siano le nostre osservanze, tuttavia crediamo che niente possa riuscirci fruttuoso senza il bene dell’obbedienza.

Capitolo 8


Il novizio«»

Coloro che, ferventi di divino amore, desiderano lasciare il mondo e cercare i beni eterni, quando vengono da noi siano ricevuti con quel medesimo spirito. È perciò assai necessario che i novizi trovino nelle case dove verranno formati l’esempio di osservanza regolare, di pietà, di custodia della cella e del silenzio, e di carità fraterna. Mancando queste condizioni, c’è poca speranza che possano perseverare nella nostra vocazione.

I candidati che vengono da noi devono essere esaminati diligentemente e con cautela, secondo la raccomandazione dell’Apostolo Giovanni: Mettete alla prova le ispirazioni per vedere se provengono da Dio. L’esperienza dimostra senza alcun dubbio che il progresso o la decadenza di un Ordine, sia quanto al valore, sia quanto al numero dei membri, dipende principalmente da un’attenta o negligente ammissione e formazione dei novizi.

I priori devono perciò indagare con precauzione sulla famiglia dei novizi e sulla loro vita antecedente, come anche sulla loro idoneità di mente e di corpo; anzi, a tale proposito sarà utile consultare medici esperti che conoscano bene il nostro genere di vita. Infatti fra le qualità di cui devono essere dotati gli aspiranti alla vita solitaria va annoverato in primo luogo un criterio equilibrato e sano.

Non siamo soliti accettare novizi sotto i venti anni; inoltre, di coloro che chiedono di essere ricevuti vanno ammessi soltanto quelli che, a giudizio del priore e della maggioranza della comunità, posseggono un grado sufficiente d’istruzione, di pietà, di maturità e di forze fisiche per assumere le osservanze dell’Ordine; e siano sufficientemente atti non solo alla solitudine, ma anche alla vita comune.

Nel ricevere persone di età avanzata dobbiamo essere più cauti, perché troppo difficilmente si abituano alle osservanze e al nostro genere di vita; perciò non vogliamo che si riceva nessuno di età superiore ai quarantacinque anni compiuti, senza espressa autorizzazione del Capitolo Generale o del Reverendo Padre. Questo permesso si richiede anche per ammettere al noviziato un religioso che è vincolato con la professione in un altro istituto; e se si tratta di un professo di voti perpetui, il Reverendo Padre deve ottenere il consenso del Consiglio Generale. Per l’ammissione di una persona che in passato sia stata vincolata con voti in un istituto religioso, siamo invitati a chiedere prima il parere del Reverendo Padre.

Quando qualcuno si presenta a noi perché desidera farsi monaco del chiostro, prima di tutto deve essere interrogato privatamente sul motivo e l’intenzione che a ciò lo spingono. E se davvero sembra che cerchi Dio solo, si procede all’esame di altri punti che allora occorre conoscere: se abbia una cultura umanistica sufficiente per un monaco che deve essere promosso al sacerdozio; se possa cantare; se non sia vincolato da qualche impedimento canonico. Il postulante poi non potrà iniziare il noviziato senza conoscere sufficientemente la lingua latina.

Ciò fatto, viene chiaramente spiegato al candidato il fine della nostra vita, la gloria che speriamo provenga a Dio dalla nostra cooperazione all’opera redentrice, e quanto sia bello e gioioso aderire a Cristo dopo aver abbandonato tutto. Però gli si prospettano anche le difficoltà e le austerità, e, per quanto è possibile, gli si pone davanti agli occhi il quadro completo del genere di vita cui intende sottoporsi. Se sarà rimasto imperterrito di fronte a tale presentazione, e se avrà promesso risolutamente di essere disposto a perseverare in un arduo cammino in forza delle parole del Signore, deciso a morire con Cristo per vivere con lui, allora lo si consiglia di riconciliarsi, secondo il Vangelo, con tutti coloro che abbiano qualcosa contro di lui.

Dopo un periodo di prova, della durata di almeno tre mesi o di un anno al massimo, in un giorno determinato il postulante viene presentato alla comunità, la quale, in un altro giorno, voterà sulla sua ammissione al noviziato.

Il novizio consegni integralmente al priore il denaro e gli altri oggetti che potrebbe aver portato con sé, affinché non lui ma il priore, o chi dal priore ne sarà stato incaricato, li conservi fedelmente in deposito, perché il novizio ha abbandonato tutto per seguire Cristo. Noi non esigiamo né chiediamo assolutamente nulla ai novizi e a coloro che intendono entrare nel nostro Ordine.

Il noviziato dura due anni; tempo che può essere prolungato dal priore, ma non oltre sei mesi.

Il novizio non si spaventi per le tentazioni che solitamente insidiano coloro che seguono Cristo nel deserto; né confidi nelle proprie forze, ma abbia fiducia nel Signore che gli ha dato la vocazione e porterà a termine l’opera iniziata.

Capitolo 9


Il maestro dei novizi«»

La formazione dei novizi va affidata ad un maestro, che sia una persona ragguardevole per prudenza, carità e regolare osservanza, dotato di conveniente maturità ed esperienza delle cose dell’Ordine, cultore insigne della quiete e della custodia della cella, che irradi amore per la nostra vocazione, che sappia anche comprendere la diversità dei caratteri e abbia lo spirito aperto alle necessità dei giovani. Tuttavia egli faccia attenzione a saper scusare i difetti degli altri pur essendo sollecito con tutto il cuore della perfezione spirituale dei giovani.

Nel ricevere i novizi il maestro sia sollecito e vigile, ed anteponga la qualità al numero. Per divenire certosino di fatto oltre che di nome, non basta volerlo; si richiede anche una speciale attitudine di anima e di corpo che, unita all’amore per la solitudine e per il nostro genere di vita, permetta di discernere la vocazione divina. Il maestro ponga attenzione a questi requisiti, perché spetta soprattutto a lui esaminare e provare i novizi. Non ignori che certi difetti, che forse in un primo momento paiono di poco conto, dopo la professione tendono assai spesso a crescere e rafforzarsi. Non accettare o rimandare qualcuno è certamente una grave responsabilità, e non si deve prendere una risoluzione al riguardo se non dopo maturo esame; però ammettere un candidato o trattenerlo troppo a lungo quando risulta che gli manchino le doti necessarie è falsa e quasi crudele compassione. Il maestro badi con gran cura che il novizio prenda in piena libertà una decisione riguardo alla sua vocazione e non lo spinga in nessun modo a emettere la professione.

A tempo debito il maestro visiterà il novizio e gli insegnerà le osservanze dell’Ordine, che non deve ignorare. Si adopererà anche con zelo, affinché studi attentamente gli Statuti dell’Ordine. È anche compito del maestro la formazione morale del novizio, dirigerlo nelle pratiche spirituali ed offrirgli i rimedi opportuni nelle sue tentazioni. Cercherà con sollecitudine che l’amore dei novizi per Cristo e la Chiesa cresca di giorno in giorno. Sebbene, sul modello del nostro santo padre Bruno, egli debba avere il cuore di una madre, è opportuno che mostri anche l’energia di un padre, affinché la formazione dei novizi sia monastica e virile. Lasci che essi sperimentino soprattutto la vita solitaria in cella e la sua austerità, ed insegni loro a prestarsi scambievole aiuto spirituale nella carità sincera e semplice.

È assai utile che il novizio si dedichi agli studi e ai lavori manuali; però non basta che sia occupato in cella e vi perseveri in modo degno di lode fino alla morte; altro si richiede: cioè lo spirito di orazione e di preghiera. Difatti se venissero a mancare la vita con Cristo e l’intima unione dell’anima con Dio, poco servirebbero la fedeltà alle cerimonie e l’osservanza regolare, e si potrebbe giustamente paragonare la nostra vita a un corpo privo di anima. Perciò il maestro abbia a cuore più di tutto di inculcare ed accrescere con discrezione questo spirito, grazie al quale i novizi dopo la professione possano avvicinarsi ogni giorno maggiormente a Dio e conseguire il fine della loro vocazione.

Il maestro risalga di continuo alle fonti di tutta la vita cristiana, ai documenti della tradizione monastica e all’ispirazione primitiva del nostro Ordine. Illustri sotto tutti gli aspetti lo spirito del nostro padre san Bruno e custodisca le autentiche tradizioni raccolte specialmente da Guigo e conservate con fedeltà fin dalle origini dell’Ordine.

Nel secondo anno di noviziato i giovani incomincino gli studi che devono essere prudentemente ordinati alla loro formazione monastica e sacerdotale secondo le direttive della Ratio studiorum. Ma i monaci non siano promossi al sacerdozio finché non posseggano la maturità umana e spirituale necessaria per aver parte a questo dono di Dio con l’adeguata pienezza.

Capitolo 10


La professione«»

Il monaco, morto al peccato e consacrato a Dio col battesimo, mediante la professione si offre più pienamente al Padre e si libera dai legami del mondo per poter tendere più direttamente alla carità perfetta. Stretto al Signore con patto saldo e stabile, partecipando al mistero della Chiesa, unita a Cristo con vincolo indissolubile, dà testimonianza al mondo della vita nuova acquisita mediante la Redenzione di Cristo.

Verso lo scadere del secondo anno di noviziato, se il novizio sembrerà che possa essere ammesso, sia presentato alla comunità che a distanza di qualche giorno, dopo un diligente esame, deciderà sulla sua ammissione. Da parte sua il novizio si obblighi con libertà piena e dopo matura riflessione.

La prima professione è emessa per tre anni. Allo scadere del triennio, spetta al priore, dopo un voto della comunità, ammettere il giovane professo a trascorrere due anni coi professi di voti solenni. Nel qual caso il monaco rinnoverà la professione temporanea per un biennio. Durante uno di questi due anni, regolarmente nel secondo, il professo temporaneo sia libero dagli studi scolastici per prepararsi con maggiore riflessione ai voti solenni.

Il discepolo che vuole seguire Cristo deve rinnegare tutto e se stesso; perciò prima dei voti solenni il futuro professo rinunzi a tutti i beni che in quel momento possiede; può anche, se vuole, disporre dei beni di cui ha diritto. Nessuna persona dell’Ordine chieda assolutamente nulla dei suoi beni al professo temporaneo, anche per opere pie e per elemosine da elargire a chiunque; egli stesso invece disponga liberamente dei suoi beni come vuole.

Nel giorno stabilito il candidato emette la professione durante la Messa conventuale, dopo il Vangelo o il Credo. In quel momento infatti l’offerta di se stesso, che intende fare con Cristo, è da Dio, per le mani del priore, accettata e consacrata.

Il futuro professo scriverà di persona la formula di professione in questi termini: Io, fra N., prometto… stabilità, obbedienza e conversione dei miei costumi davanti a Dio e ai suoi santi e alle reliquie di questo eremo, edificato ad onore di Dio, della Beata sempre Vergine Maria e di san Giovanni Battista, in presenza di dom N. priore.

Se si tratta della prima professione temporanea, dopo la parola prometto si aggiunga per tre anni; e qualora tale professione venga prorogata, si dica la durata della proroga; se poi si tratta della professione solenne, si aggiunga perpetua.

Si noti che tutti i nostri eremi sono consacrati in primo luogo alla Beata sempre Vergine Maria e a san Giovanni Battista, che consideriamo nostri principali patroni celesti.

Una volta fatta la professione, colui che è stato ricevuto si considera così estraneo a tutto ciò che è del mondo da non poter disporre più di nulla, neppure di se stesso, senza il consenso del priore. Infatti, se tutti coloro che hanno scelto la vita religiosa devono praticare con grande zelo l’obbedienza, noi dobbiamo farlo con una dedizione e una sollecitudine tanto più grandi quanto più austera e ardua è la regola di vita cui ci siamo sottoposti, affinché non succeda che, Dio non voglia, mancando l’obbedienza, tanti faticosi sforzi siano privi di ricompensa. Ciò faceva dire a Samuele: L’obbedienza è migliore del sacrificio, ed essere docili è più che offrire il grasso degli arieti.

Ad esempio di Gesù Cristo che è venuto per fare la volontà del Padre e che, assumendo la condizione di servo, imparò l’obbedienza dalle cose che patì, il monaco con la professione si sottomette al priore, che rappresenta Dio, e si sforza di conseguire la misura che conviene alla piena maturità di Cristo.